Katia Bovani

Le basi della scrittura argomentativa.

Immagina di essere  un ingegnere aeronautico che non si è formato negli studi classici. Immagina di alzarti, una mattina, con il desiderio di leggere l’Odissea in greco.

Forse sì: basta essere dotati di una mente viva, curiosa e intraprendente.

Ma, sulla scia di questo desiderio, andresti in libreria a sceglierti un’Odissea con il testo tradotto a fronte?

Dubito che lo faresti perché sai benissimo che imbarcarsi in questa impresa non significherebbe leggere un verso greco e il suo corrispondente in italiano.

Quello che serve davvero è conoscere la lingua greca antica. Partendo dall’alfabeto.

Facendo gli abbinamenti “segno-grafia-suono”.

E poi distinguendo la “e” breve dalla “e” lunga, lo “spirito” dall’ “accento”.

Lo stesso accade nella scrittura argomentativa.

L’espressione “scrittura argomentativa” non  vuol dire mettersi al pc e scrivere le primissime idee che saltano in testa: fatte le dovute proporzioni ed entro i dovuti limiti, questo può andar bene nell’approccio alla scrittura creativa  ( e, sottolineo, solo nella fase dell’approccio)

“Argomentare” per scritto significa (in soldoni, ma grandi soldoni per il momento) convincere un essere razionale che una certa affermazione è vera oppure convincerlo che è falsa.

Forte, vero ? Senz’altro.

Ma si inizia dalle basi. Si inizia da qui.

La percezione, ovvero l’impressione

Il refrain di una bellissima composizione di Franco Battiato diceChe cosa resterà di me, del transito terrestre? Di tutte le impressioni che ho preso in questa vita?

“Impressioni che ho preso”: non è un errore concettuale, né sintattico. Non è una licenza poetica.

Le “impressioni” si “prendono” davvero.

Nella tua città si esibisce la rock band che tu e il tuo gruppo di amici amate: comprate al volo i biglietti e aspettate la data con trepidazione.

Al termine del concerto ed entusiasta dell’evento, ognuno di voi esprime ciò che gli passa nell’animo: uno ha adorato la canzone “X”, un altro elogerà il bassista nella canzone “Y”, ci sarà chi è rimasto colpito dagli abiti indossati nel  primo tempo, chi le scenografie e le luci, insomma…ciascuno dirà la propria.

“Dirà la propria”…cosa? La propria “impressione”.

Pensaci.

Il contesto in cui eravate calati e che avete vissuto è identico: tutti avete assistito allo stesso concerto, ascoltato le stesse canzoni, visto le stesse cose.

Ma ognuno di voi ha percepito quel contesto in modo diverso perché i neuroni sensitivi di ciascuno  si sono attivati in relazioni a stimoli diversi lanciando, al proprio sistema nervoso centrale, un diverso input.

Può anche darsi che la reazione avvenga in base a stimoli percettivi di uguale contenuto (a esempio, tu e un amico siete rimasti colpiti, entrambi, dalla voce di una corista), ma l’elaborazione di quell’input da parte delle vostre rispettive cortecce cerebrali esiterà in due apprendimenti di ordine generale i cui contenuti emotivi non saranno, naturalmente, congruenti punto per punto.

Adesso ferma il pensiero al momento in cui ognuno di voi pronuncia la sua impressione: “Bella la scenografia!”, “Woww che voce il solista!”, “Dai, ma vuoi mettere il batterista??”

Ecco, solo fermandosi a quel preciso istante, si può comprendere  che l’impressione è quella percezione che consente di formulare un parere di ordine prettamente generale e, quindi, privo di specifiche connotazioni.

“Wooww che voce il solista!” è un enunciato che racchiude una sommatoria di percezioni e sensazioni in grado di esprimere l’idea indistinta, approssimativa del piacere provato all’ascolto.
Non offre indicazioni circa le ragioni per cui quella voce sia piaciuta, non dà contezza delle motivazioni di ordine tecnico-vocale che fanno procedere a quella esclamazione.

In altre parole, non contiene un reale ed effettivo giudizio estetico.

Per giungere a questo occorre ben altro e la strada per arrivarci non è ancora iniziata[/vc_column_text][image_with_animation image_url=”197″ animation=”Fade In” hover_animation=”none” alignment=”” border_radius=”none” box_shadow=”none” image_loading=”default” max_width=”100%” max_width_mobile=”default”][vc_column_text]

Scendere in profondità

Immaginiamo che a pronunciare quell’apprezzamento sulla voce del solista sia tu.

Se nessuno ti domanda “Perché ti è piaciuta?” oppure se tu stesso non ti poni questo interrogativo, la cosa finisce lì e non andrai oltre un semplice parere, un’opinione.

Ma se ti problematizzi  e/o vieni sollecitato ad approfondire quell’opinione,  non hai altra via se non focalizzarti sulle  percezioni che l’hanno causata e passarle al microscopio.

Gli occhi della mente sono chiamati ad allargare la sezione delle sensazioni provate e a chiederti : “cosa mi è piaciuto di quella voce? Il timbro? Era rotonda? Quanto piena? Espressiva? La sua tenuta? Il ritmo?”

Ebbene, sai cosa stai facendo mentre cerchi la risposta a ogni domanda?
Stai analizzando la tua iniziale percezione.

E se metti in fila i singoli risultati dell’analisi, la loro sommatoria ti restituirà le motivazioni che stanno alla base della tua percezione: sei giunto all’osservazione analitica dell’impressione sintetica.

Si tratta di un processo mentale che richiede un tempo.
Già, perché, per formarsi, il pensiero analitico ha bisogno di tempo.

Non a caso, la nostra lingua ha coniato l’espressione “impressione a caldo” per indicare quel pensiero che, nell’immediatezza di un evento creato dall’uomo o di un fatto naturale, si pone come la sintesi a valle delle sensazioni provate a causa di quell’evento o fatto.

Ma quando la mente si ferma per cogliere la catena dei “perché” di quelle sensazioni, il tempo deve necessariamente rarefarsi.

A questo punto è necessario chiedersi quale sia la funzione dell’osservazione.

La scrittura argomentativa non può prescinderne.

Il senso dell’osservazione

Oggi va di moda dire che qualcosa o qualcuno è “zen” (lo so, la sto prendendo larga: c’è una ragione).

Talvolta, noi occidentali utilizziamo questa parola  in modo superficiale e a scarso proposito. Ricorriamo a lei per indicare la sommaria presa di allontanamento dal mondo che ci circonda e dalle sue frenesie.
Lo facciamo senza accorgerci che “stiracchiando” questo termine, finiamo per avvicinarlo al concetto epicureo di atarassia.

Ma “essere zen” significa tutt’altro.
Si tratta di un  percorso interiore tramite cui si acquista coscienza di sé in rapporto al mondo.
Consente di guardare alla propria esperienza senza rimanerne travolti: la “lascia scorrere”, in una lenta, ma efficace presa di consapevolezza del proprio SÉ.

“Essere zen” vuol dire “essere consapevoli” di se stessi, del proprio tempo, delle proprie sensazioni, emozioni.

E in questa assunzione di consapevolezza, l’osservazione  gioca un ruolo fondamentale perché è da quest’ultima che ricaviamo il senso intimo dei fatti che accadono intorno a noi, della vita che si svolge intorno.

Tramite l’osservazione formiamo la comprensione del contesto fenomenico in cui ci troviamo.
Con l’osservazione acquistiamo la coscienza di quell’equilibrio che permette di frapporre, tra noi stessi e il mondo, la distanza interiore necessaria ad agire nel mondo  senza rimanere travolti dalle sue difficoltà bensì trovando percorsi funzionali a superarle.

Come vedi, l’osservazione  è la strada per la consapevolezza.

Dunque, l’osservazione è, in primo luogo, zen.

Ma, oltre a questo aspetto interiore, nell’ambito della scrittura argomentativa l’osservazione ha anche una funzione cosiddetta “logico-inferenziale”.

Vediamone il significato.

Quante volte, nella vita,  ci siamo trovati a dire che “non serve infilare un dito in una presa per sapere che lì passa la corrente elettrica”?

Ebbene, questa  espressione non è frutto di un’idea astratta.
Al contrario, nasce dall’esperienza. Essa è in grado di suggerirci che il corpo umano, in ragione dell’importanza che i processi elettrochimici interni assumono nello svolgimento delle principali funzioni vitali,  è un ottimo conduttore di elettricità.

Quindi, gli effetti di uno shock elettrico sono noti e notori.

Proprio per questa ragione, quando  sentiamo dire che qualcuno è rimasto ustionato a causa di una scarica elettrica, automaticamente sappiamo che il malcapitato è venuto a contatto, in modo improprio, con un cavo.

Un altro esempio.
Una collega che lavora nei tuoi stessi locali utilizza un profumo penetrante: se, entrando nella tua stanza senti la scia di quel profumo sai subito che lei è stata lì.

Entrambe le ipotesi hanno in comune il meccanismo di funzionamento: ad un fatto se ne associa un altro:

  1. “Tizio è rimasto ustionato da una scarica elettrica: deve essere venuto a contatto con un cavo dell’alta tensione”.- “Tizio è rimasto ustionato da una scarica elettrica” = fatto associante– “deve essere venuto a contatto con un cavo dell’alta tensione” = fatto associato.
  2. “ Sento la scia del profumo “XX: Maria è stata qui”.- “Sento la scia del profumo “XX” = fatto associante– “Maria è stata qui” = fatto associato

Guardando più attentamente, ci accorgiamo che il “fatto associante” altro non è se non una osservazione:

  • “Osservo che Tizio è rimasto ustionato da una scarica elettrica”
  • Osservo che in questa stanza si sente la scia del profumo XX”

A sua volta, il “fatto associato” è il senso attribuito all’osservazione.

  • Osservo che Tizio è rimasto ustionato da una scarica elettrica: significa che è venuto a contatto con cavo dell’alta tensione”
  • Osservo che in questa stanza si sente la scia del profumo XX: significa che Maria è stata qui”.

La relazione linguistica, cognitiva e logica  tra l’osservazione e il suo senso prende il nome di inferenza.

Se il mio cane rientra in casa bagnato fradicio e oggi c’è il sole e fa molto caldo, inferisco che il  mio adorato è andato a cercare frescura dovunque si trovasse acqua a sufficienza da bagnarsi: questo perché osservo il cane, osservo le condizioni atmosferiche e attribuisco un solo senso e un solo significato a queste osservazioni.

Ma se la giornata  è piovosa e vedo rientrare mio fratello inzuppato, posso inferire soltanto che non disponesse di un ombrello?

Oppure è possibile inferire  sia che non aveva con sè un ombrello sia che è tornato a casa a piedi?

L’esperienza mi dice che posso inferire sia l’uno che l’altro elemento.

Questo perché a una osservazione possiamo correlare non una sola inferenza, ma anche più di una.

Quante, precisamente?

Non esiste una risposta precisa.
O meglio, esiste ed è questa: “infinite inferenze purché ognuna renda ragionevole collegare un determinato significato a una determinata osservazione”

Sai perché?

Perché tra gli infiniti dettagli e particolari di cui un fatto si compone sei tu a scegliere quali particolari sono rilevanti ai tuoi occhi: tu scegli le osservazioni importanti circa una tua percezione.

Allo stesso modo e correlativamente, tra gli infiniti ragionevoli sensi e significati attribuibili a quelle osservazioni e, quindi, tra le infinite ragionevoli inferenze, sei sempre tu a scegliere quale (o quali) ragionevole/i inferenza/e  attribuire alle tue osservazioni.

E allora, ti lascio con una duplice domanda: nell’ambito della comunicazione sia essa scritta che orale quanto è importante che l’autore espliciti i propri principi inferenziali per essere sia credibile che compreso? E quanto è importante conoscere i procedimenti tramite cui procedere a inferenza/e?

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katia

Mi chiamo Katia Bovani e sono un editor, ghostwriter e writing trainer, aiuto le tue parole a diventare i tuoi testi. Quello per la lettura e la scrittura è un amore nato prima dell’età scolare per emulazione, diventato potente nella gioventù quando si è arricchito degli aspetti etimologico-linguistici e ora, nella maturità, è irrinunciabile.

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