
C’è una domanda che mi capita spesso di porre a chi scrive, a chi parla, a chi comunica per mestiere, ed è questa: la parola è azione o è movimento?
È una domanda semplice, come vedi.
Ma, quando me la sono posta per la prima volta, mi è sembrato che aprisse una fessura tra i miei pensieri automatici, compresi quelli un po’ più strutturati.
Per, poi, accorgermi, che proprio quella fessura è il condotto per una possibilità ben precisa: ripensare il modo in cui usiamo la parola in ambito professionale ( e non solo).
Disclaimer: se questo articolo non ti andasse a genio, citofona @Mariangela Ottaviani e @Riccardo Valle.
Se ho scritto questo articolo, lo devo ai loro commenti sotto al mio ultimo post su Linkedin ( link in calce).
La parola come azione
“Parola”.
Il suo etimo è “discorso, insegnamento”.
Esiste, forse, un insegnamento che non cambi lo stato di chi impara – e, talvolta, anche di chi insegna- ?
Se lo stato non cambiasse, allora l’insegnamento non sarebbe stato tale.
La “parola”, dunque, è qualcosa che cambia lo stato delle cose. Produce un effetto chiaro, diretto.
Dà un consenso, firma un preventivo, chiude una decisione, chiede il conto di una situazione.
La parola fa accadere cose.
Perciò, quando parliamo o scriviamo, non ci limitiamo a descrivere il mondo: lo modifichiamo.
Perché la parola è sorretta dall’intenzione.
Anzi, è intenzione che si fa carne.
La parola che agisce. In linguistica, si parla di atto performativo: quando “il dire” è già “fare”.
E nei contenuti professionali ( i notri post, gli articoli), nel lavoro, nella comunicazione d’impresa…cos’è, come possiamo riconoscere la “parola che agisce”?
In maniera molto semplice.
All’interno di quelle aree, la parola è azione quando:
👉chiarisce
👉orienta
👉fa scegliere
👉porta a una risposta: a un “sì”, un clic, un “no”. Anche il “boh” agisce, certo.
Ma… tutto questo, basta?
A me, non tanto. E, sono sicura, neppure a te.
La parola come movimento
Accade che la parola non sia funzionale soltanto a dire cosa fare o a imporre una direzione.
La parola può attivare una dinamica. E, quindi, muovere qualcosa.
Non ti porta dritta alla mèta. Ti mette in cammino.
Prova a leggere, tra te e te, queste frasi:
🔹“E se provassimo a raccontarlo in modo diverso?”
🔹”E se il problema non fosse nel pubblico, ma nel messaggio?”
🔹“E se invece di convincere, imparassimo ad ascoltare?”
Lo senti lo spostamento di attenzione, anche piccolissimo, che queste frasi provocano nella tua mente?
Lo percepisci il dinamismo del processo che, quelle parole, generano facendo muovere il tuo pensiero, l’emozione, la volontà?
In quelle frasi la parola non ti fa fare. Ma ti fa sentire di voler fare.
A questo punto, la domanda è: nella comunicazione professionale, la parola è azione o movimento?
Tutto dipende da chi vogliamo essere mentre comunichiamo.
⚡Se comunichiamo per chiudere, per far accadere qualcosa, per arrivare a un risultato più o meno immediati, allora la comunicazione deve utilizzare la parola affinché sia azione.
Perché, in questo caso, è chiamata a generare conseguenze.
⚡ Ma se la comunicazione serve a costruire, ad attivare coscienza, ad accompagnare trasformazioni, allora la parola deve sapere stare nel movimento.
🎯 Con una accortezza.
L’azione senza un movimento interiore rischia di diventare automatismo.
E un movimento senza mai un’azione rischia di rimanere sospeso.
Per questo ( e in ciò sta la mia, personale risposta), la comunicazione professionale – quella buona, quella che non manipola ed è efficace – dev’essere in grado di oscillare tra azione e movimento.
Il movimento dà anima all’azione.
L’azione dà finalità concreta al movimento.
Parola etica: il terzo polo
In un certo senso, c’è un terzo polo. Un punto di equilibrio fra movimento e azione: la parola etica.
È la parola che non manipola, non spinge, non forza. È quella che accompagna il processo decisionale dell’altro, senza sostituirglisi.
La parola che orienta, ma non comanda. Che propone, ma non gioca sporco con il processo di autodeterminazione di chi ascolta o legge.
Perché non rincorre il profitto con la coscienza e la volontà di raggiungerlo a ogni costo, anche portando i lettori verso l’inutilità ( se va bene) o il danno ( se va male).
Una parola che, per sua natura, si muove e poi agisce.
Ma solo se chi ascolta o legge è pronto a farlo.
E noi, cosa vogliamo che faccia la nostra parola?
Quando scriviamo un contenuto, quando costruiamo una proposta, quando parliamo in un contesto professionale…
Vogliamo spingere o vogliamo attivare?
Vogliamo che la parola faccia succedere qualcosa? O che faccia nascere qualcosa?
A volte la risposta è tecnica. Altre volte è di opportunità.
Ma spesso, è etica.
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Ecco il post dal quale la riflessione è nata: https://www.linkedin.com/posts/katia-bovani-editor-ghostwriter_linkedin-intelligenzaemotiva-comunicazione-activity-7343500693904801792-g96H?utm_source=share&utm_medium=member_desktop&rcm=ACoAAAaylQwB1kytilqN_7eFFGvNd-C4PiXweCc