Cosa facciamo quando guardiamo?
E quando osserviamo?
Pensiamoci: guardare e osservare sono sinonimi?
Stavolta non voglio “tirare in ballo” l’etimologia, ma solo la riflessione.
Quando qualcuno mi dice “Sai, osservavo questa cosa e ho notato che…” oppure “…ho pensato che…”, io so che devo porre attenzione alle parole del mio interlocutore perché ha premesso “…osservavo…”.
Alla percezione del verbo “osservare”, la summa delle mie esperienze elaborate dalle funzioni cerebrali superiori e depositate nella memoria semantica, mi mette in attenzione.
Perché, la memoria implicita sa che l’azione dell’osservare non corrisponde a quella del guardare.
Quando “guardo” getto uno sguardo d’insieme su ciò che mi circonda e lo faccio in modo del tutto casuale senza l’intenzione di soffermarmi su qualcosa in particolare. Il risultato è che l’occhio fisico e quello della mente prendono impressioni generali o, come scrive Tullio de Mauro, “a volo d’uccello”.
Ma, durante gli atti del guardare, posso rimanere colpita da qualcosa e, allora, mi fermo per avvicinare agli occhi ( fisici e quelli della mente ) a quel “qualcosa” che ha fatto impennare la mia soglia di attenzione.
Ecco, che a quel punto, l’azione cambia.
Dal guardare passo all’’ “osservare”.
La mia volontà mi fa avvicinare a quella cosa per guardarla da vicino.
Dal generale mi sposto verso il particolare.
Guardo bene: rilevo i particolari di quella cosa, li individuo e pongo attenzione su di essi.
Osservo. E dall’osservazione traggo inferenze.
Si tratta di un procedimento logico ed anche emotivo che investe e riguarda la mia relazione percettiva ed elaborativa con l’oggetto osservato.
Una relazione che nasce e si protrae come esclusiva.
Questa è la ragione per cui, nel lasso di tempo in cui osservo, ad agire non è la riflessione, ma la rilevazione.
In altre parole, mentre osservo non interpreto.
Certo, non ritengo neppure di stare guardando la “verità” di quel quid che osservo.
Ma, in quel preciso momento, non valuto.
Il giudizio è sospeso.
E sai quand’è che entra in gioco l’interpretazione?
Quando racconto quell’oggetto. Non importa se lo racconto a me stessa o a te.
Ma, nel momento in cui comincio a riferire l’esperienza della mia osservazione, in quel momento creo una narrazione.
Perché la nostra specie è progettata per esprimersi in forma narrativa.
Tramite la comunicazione in forma narrativa, l’Uomo offre attribuzione di senso al suo vissuto e, per usare le parole di Umberto Eco, la narrazione è funzionale a “dare forma al disordine delle esperienze»[1]
Organizzare, collocare, dare senso, interpretare, fare memoria.
A questo servono le storie.
E una storia da raccontare è alla base del romanzo, di un racconto, della scrittura creativa.
Dunque, quando capita di pensare “Vorrei scrivere, ma non ho idee”, ecco…teniamo conto che l’osservazione è LA cornucopia a cui attingere per un’idea di romanzo.
Quindi, la questione è un’altra e cioè diventare buoni osservatori.
Come? Continua a leggere.
Sintesi sull’osservazione
Non pensare che esista il “manuale del buon osservatore”.
Ma, facendo attenzione ad alcuni elementi, è possibile mettere a fuoco e rafforzare la nostra capacità di osservazione.
Innanzitutto, una forte alleata è proprio la consapevolezza delle differenze tra “guardare” e “osservare”.
“Guardare” è un verbo che designa un’attività
- non mirata a cogliere dati determinati, è un atto
- Generica: non avendo l’intenzione di cercare qualcosa di particolare, si guarda in modo del tutto generico
- svincolata dalla volontà: se non so cosa troverò guardando, di certo non sono intenzionata a cercarlo per trovarlo.
L’osservazione, invece, implica un’attività
- mirata: mi dirigo verso un particolare con lo scopo di vederne le caratteristiche da vicino. E si stratta di un concetto, mi riservo un tempo dedicato soltanto alla riflessione di quel concetto
- volontaria: proprio perché mirata, l’osservazione nasce da un atto di volontà che mi dice “dai, forza, prendi questa cosa e guardala con grande attenzione!”
- particolare: sì, certo, posso anche osservare l’insieme, ma la vera osservazione prende sempre le mosse dalla valutazione di un dettaglio.
Dall’osservazione alla narrazione.
Ti è mai capitato di cogliere, con gli occhi della mente e in un determinato contesto, la carenza di qualcosa?
Ecco, in talune situazioni è proprio la percezione di incompletezza ad attivare l’osservazione e ad innestare quel processo mentale di ricerca, spiegazione, valutazione e interpretazione di quella particolare realtà.
E non solo.
L’assenza di qualcosa attiva l’immaginazione.
Noi umani siamo naturalmente portati a immaginare “come sa sarebbe se…” e, per quanto lontano possa condurci questa riflessione, essa ha il potere di aprirci una finestra su un mondo interiore che prima non c’era.
Pensa a quante ipotesi hai formulato in un frangente come questo. Alle motivazioni che ti sei dato.
Agli alibi, perché no?
Alla narrazione che ti sei offerto.
Inoltre, osservare ci porta dritti dritti alla “connessione”.
Quando la nostra attenzione si appunta su un elemento, raramente si ferma lì.
Perché attiva una sorta di “catena di S.Antonio” nella ricerca di fattori connessi a quello osservato, stringe alleanze tra elementi, scarta ciò che non ha relazione, destruttura per ricostruire.
Insomma, l’osservazione è movimento e divenire.
Fa correre i sensi e il pensiero da un luogo reale o ideale all’altro.
La narrazione si arricchisce.
E ancora: osservare ci mette in attenzione.
Non pensare di avere scampo: se ti sei fermato a osservare qualcosa, da quel momento in poi e in ogni situazione similare, le tue facoltà percettive si allerteranno nella speranza di cogliere affinità con la cosa osservata.Sanno cosa cercare e ti spingeranno a rilevare la presenza o la mancanza del quid affine.
E la narrazione si allarga o si circoscrive.
L’allargamento o la circoscrizione dei confini narrativi ci spinge a cercare.
Ecco che “osservare” contribuisce alla costruzione di quello che mi piace definire “pensiero procedente” nel senso etimologico del termine, cioè “pensiero che va avanti”.
Nell’andare avanti, il pensiero fa scoperte, anticipa altri pensieri di tipo proattivo o conclusivo, fa cernite.
La narrazione si articola.
Cercando troviamo.
Sì, ma dove?
Beh, non dobbiamo porre limiti: talvolta l’osservazione ci costringe a scavare, ma altre volte ci fa innalzare lo sguardo verso livelli inaspettati e si impone, nel costringerci a prendere contezza e coscienza, tanto del basso quanto dell’alto.
La narrazione acquista spessore.
In quale direzione ci conduce l’osservazione?
Anche qui, niente limiti.
La curiosità, che è madre dell’osservazione, è una signora che conserva eleganza nel suo peregrinare.
Si può partire osservando un kiwi per approdare in Cina poi riprendere la rotta fino in Nuova Zelanda. Ed ecco che quel kiwi finirà per raccontare scenari itineranti.
La narrazione acquista tridimensionalità.
E poi… puntuale arriva l’interpretazione personale.
Inevitabilmente, di tutto il materiale osservato siamo chiamati a esprimere un giudizio.
Sarà la nostra onestà intellettuale a guidarci nel percorso, assai delicato, dell’attribuzione di valore o di disvalore.
E in quello, altrettanto accidentato, di assegnazione di meritevolezza o immeritevolezza.
La narrazione si colora di autorevolezza.
Forse, il viaggio non è ancora terminato, ma ne hai abbastanza per mettere a sistema il frutto di tutta questa attività
Insomma, puoi iniziare a mettere su carta ( o su file) la storia.
Avrà la forma di un romanzo?
Sarà un testo argomentativo?
Oppure uno storytelling?
Altro?
Non importa.
Quel che conta è che sarà sempre scrittura.
[1] U. Eco, Sei passegiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, p. 51.
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